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(di Antonio Incorvaia)

Nella diffusa fatiscenza strutturale e didattica in cui versa, con inesorabile criticità, la Scuola italiana, viene inevitabilmente spontaneo ricondurre ogni responsabilità di causa e di effetto alle istituzioni, colpevoli di aver privato la formazione e la ricerca non soltanto di strumenti, ma anche di diritti, di valori e di obiettivi. Che il 73% degli studenti (tre su quattro) abbia paura di non trovare un lavoro coerente con il proprio percorso accademico, ovvero di non trovarlo affatto1, accende un campanello d’allarme – l’ennesimo – destinato a suonare come l’epitaffio di un intero sistema educativo, nel quale alunni e docenti appaiono sempre più ingabbiati all’interno di arcaici compartimenti stagni di ruolo e prospettive.

Tuttavia, è appunto da loro, dal basso, che può (e deve) innescarsi una nuova rivoluzione copernicana dell’insegnamento e dell’apprendimento, in grado di (ri)consegnare alla Scuola quella funzione di epicentro del sapere e del saper fare che le appartiene al netto di qualsiasi riforma ministeriale. Cooperare per progettare insieme una “Scuola sostenibile”: è questo l’obiettivo, tutt’altro che utopistico o aleatorio, che ciascun attore a ciascun grado di istruzione è chiamato a mettere al primo posto della propria agenda, costruendo nuove connessioni sociali e professionali tra le tante energie che oggi finiscono disperse per eccesso di frammentazione e isolazionismo. Lasciandosi alle spalle rivendicazioni politiche, tensioni generazionali e/o autocommiserazioni fini a se stesse, si tratta quindi di sostituire l’obsoleto concetto di «classe» con quello di «laboratorio», che favorisca lo sviluppo partecipativo di punti di vista non convenzionali e la condivisione di conoscenze reciproche e bidirezionali.

I modelli già adottati con successo su scala internazionale testimoniano che non è la mancanza di capitali a ostacolare – o impedire – il cambio di passo, bensì il pregiudizio culturale e l’abituale paura di intaccare lo status quo. Esperienze come la Classe Rovesciata2 (in cui la stessa disposizione dei banchi favorisce l’integrazione tra docenti e studenti, e in cui le attività didattiche vengono svolte con l’ausilio sistematico di supporti video) o come la Classe One to One3 (in cui ogni studente può utilizzare il suo laptop/tablet/smartphone per scopi educativi durante la lezione), come il Social Learning4 (in cui l’attività didattica tra docente e studenti avviene in modo connettivo dentro e fuori dalla scuola, e in cui l’utilizzo dei Social Network amplifica le opportunità di confronto, documentazione e conoscenza5) o come i MOOC6 («Massive Open Online Courses», corsi erogati interamente sul Web in cui le lezioni sono accessibili on demand 24/7, trasformando così la Scuola in “piattaforma” e il “tempo classe” in “tempo vita”) dimostrano che un approccio formativo aperto ed evoluto è sostenibile anche dal punto di vista economico, massimizzando la produttività delle risorse gratuite o a basso costo presenti online e sul territorio.

Allinearsi a tali modelli non significa rifiutare e sovrascrivere le tradizionali metodologie accademiche, ma attualizzarle secondo canoni e princìpi contemporanei. È comprovato che, sin dall’infanzia, un individuo sia naturalmente predisposto a imparare di più attraverso la pratica anziché attraverso l’acquisizione – o l’imposizione – di nozioni: la sperimentazione del metodo SOLE («Self Organized Learning Environment»), condotta di recente in India e Inghilterra7, non fa che rafforzare l’esigenza di una radicale e solerte inversione di marcia, che intervenga sugli aspetti motivazionali e ispirazionali dell’istruzione focalizzandone i contenuti non sulla dottrina bensì sull’orientamento. Che non significa (solo) sostituire i libri cartacei con gli ebook o allacciare reti wi-fi a banda larga, ma elaborare nuovi standard qualitativi fondati su dinamiche di inclusione e co-creazione8 tra insegnanti e alunni.

I vantaggi, d’altro canto, sono manifesti per entrambi: gli insegnanti possono accrescere la propria empatia e la propria autorevolezza acquisendo una funzione più consulenziale che cattedratica; gli alunni possono accrescere la propria consapevolezza e la propria coscienza di sè come agenti attivi di uno storico cambiamento sociale.

Certo, altrettanto manifeste per entrambi sono le difficoltà e le insidie. Fra tutte, la mancanza di strutture sufficientemente flessibili (nello spazio e nel tempo) per valorizzare iniziative individuali di questo genere, o i rischi relazionali derivanti da una maggiore prossimità, in aula e fuori, tra educatori e ragazzi. Ma ciò non deve tradursi in un ulteriore, ennesimo viatico per l’immobilismo quanto, piuttosto, in un incentivo ancora più sfidante a produrre idee e soluzioni. Del resto, come recita uno tra i più efficaci adagi motivazionali, «finché non ci si prova, non si può dire che non ci si riesce».

Fonti:

1 La Scuola siamo noi – Referendum condotto da La Rete Della Conoscenza su un campione di 98.251 studenti, 11 giugno 2013 (http://bit.ly/191EKNW ).

2 The Flipped Classroom | Turning traditional Education on its head – Infografica, 29 agosto 2011 (http://bit.ly/qj7BBu ).

3 The 1:1 Classroom – Blog, da aprile 2007 (http://mrpullen.wordpress.com).

4 Social Learning – Gruppo Facebook, da ottobre 2010 (http://on.fb.me/13MpthO )

5 IED Management Lab, Facebook High School – Idee e progetti per una nuova didattica Social, febbraio 2013 (http://slidesha.re/139K2q3 ).

6 Cfr. Khan Academy – E-learning video library, dal 2006 (http://bit.ly/RDKpCj ).

7 Luca De Biase, La Scuola che cambia. Sugata Mitra ha un’idea. E TED lo finanzia con un milione, Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2013 (http://bit.ly/13C94wz)

8 C. K. Prahalad e V. Ramaswamy, Co-Creation experiences: the next practice in value creation, estate 2004 (http://bit.ly/11JR4Nw).

Sitografia di riferimento:

 

https://www.high-endrolex.com/34